Raate – “Sielu, Linna” (2007)

Artist: Raate
Title: Sielu, Linna
Label: World Terror Committee
Year: 2007
Genre: Black/Folk Metal
Country: Finlandia

Tracklist:
1. “Raudan Takoja”
2. “Viimeinen Linnoitus”
3. “Suo I”
4. “Suo II”
5. “Suo III”
6. “Suo IV”
7. “Suo V”

Si è soliti tendere a riscoprire e far riscoprire, o portare gli altri a fare la prima conoscenza quasi esclusivamente di quelle grandi e grandissime opere che, correttamente e debitamente celebrate, finiscono per influenzare a furor di popolo interi linguaggi con i propri peculiari modi di suonare, di porsi nel loro contesto o presentarsi all’avventore: schiere di altri artisti e autori fieri nel replicarne le gesta, nel sicuramente meno imperdibile dei casi, o di svilupparne le codifiche verso nuovi, inesplorati lidi che facciano tuttavia di questo o quell’altro stratagemma fulminante scovatovi dentro il motivo per cui fare musica dal principio. Proprio tuttavia in questa condivisa e mutuale gloria, in un sottinteso di evidenza ed irrinunciabilità per gli ascoltatori di ogni età, questi enormi classici -queste vere e proprie spalle di giganti- diventano spesso non soltanto abusati da chi dovrebbe o vorrebbe farne le veci, ma persino stucchevoli nel più largo discorso evolutivo che li vede sempre più sterilmente citati e svuotati così del loro inalienabile carattere che resta, in definitiva, necessariamente qualcosa d’altero e differente rispetto a ciò che, dalla lunga traiettoria di punte di lancia quali sono, può esserne venuto in seguito come conseguenza-figlia riconosciuta o meno che sia.

Il logo della band

Allora, più spesso che non, risulta una saggia scelta peraltro mai trascurata dal fedele esploratore del cosiddetto underground e delle sonorità più oscure (non tanto -o quantomeno non unicamente- per sensibilità, bensì per la mera misconoscenza generale delle suddette) quella di spostare l’attenzione verso ciò che di quella acclamazione popolare unilaterale ne ha ricevuta meno – o che non ne ha ricevuta affatto. In queste piccole e ciononostante spesso enormi opere altre, va quasi da sé, si trova un mondo lontano dagli universi lessicali in musica a cui siamo divenuti più esposti ed educati, abituati se non assuefatti in prove su prove che ne tentano o ne esasperano l’esplorazione.
Il lettore più attento muoverà qui ed ora una giustissima obiezione: se tuttavia un disco, in questo genere ancor più che in altri, resta indietro tra le pieghe della storia e degli ascolti personali, nella stragrande maggioranza dei casi significa, molto semplicemente, che questo piccolo-grande mondo in esso contenuto non era poi particolarmente suo. Non era poi granché efficace o inventivo nel mare magnum di proposte che viviamo dall’inizio dei famigerati anni 2000. A differenza di quegli illustri casi che portano avanti -ed oltre- dunque un linguaggio divenuto d’annata per farne un’altra cosa, nuova, inattesa nonostante un qualche e fisiologico grado di fortunata familiarità insita a quel che, in fondo, un genere o filone stilistico non può non essere, questi dischetti considerati minori possono essere invece nonché a tutti gli effetti ritenuti tali: per mancanza di una peculiarità che li possa rendere veramente immortali.
Ma ad ogni regola che cerca di sistematizzare l’oblio, un pochino su queste pagine tentiamo da sempre di dimostrarlo a modo nostro, esiste un’eccezione; i Raate, figli della Helsinki che a tanti splendidi gioielli ha dato vita al volgere del millennio (e non è ad oggi ben chiaro se si debba usare il tempo verbale presente o passato), anomalia e rarità lo sono stati e con risicatissimo margine di diatriba. “Sielu, Linna”, come si suole spesso dire in questi casi, è una strana belva. Un disco di debutto interlocutorio ed enigmatico per molti, soprattutto a fronte di un demo datato 2004 per certi e immediati versi più corposo; passatista e poco originale per un orecchio meno educato e -diciamolo- in senso stretto anche meno còlto – ma uno che raramente, se affatto, può lasciare nel suo meravigliato scopritore indifferenza.

La band

Il primo lavoro completo (tale, benché di qualche minuto curiosamente più breve della dimostrazione poi ristampata a col titolo di “Halki Kuolleen Maan…”) messo su dallo schivo duo rappresentato da Tomi Myllymäki e Robert Service, anche una delle prime pubblicazioni maggiori di una World Terror Committee al suo primo logo e ancora lontana dai criteri poetico-estetici adottati attorno al turning-point anno 2010 di “Consolamentum” degli Ascension, è davvero e non per mero modo di dire una bizzarra creatura anche nella sua struttura: due lunghi, intensi, sfingei eppure affascinanti e magnetici capitoli di un Black Metal che sembra provenire dal fondo di un lago come una splendida pianta emerge dal fondale nero di una palude, spazialmente, e dai recessi del tempo senza tempo più cronisticamente parlando; suonati da uomini primitivi oltre il concetto di uomo e completati da un secondo capitolo di musica a tratti estremamente rarefatta, vicina alla sensibilità più oscura e meno narrativa, più immaginativa dei Tenhi. Ma quando queste due strane sezioni d’album vengono ascoltate come un viaggio unico, accade qualcosa di speciale: la narrazione si ricrea senza e più in là della parola; in lunghissimi passaggi strumentali, i quali bucano l’orfico ventre del padre di Etere, Chaos ed Erebo, si fa colonna sonora di una ineffabile eppure indomita epicità sotterranea che non scade mai nel semplicistico o nel dozzinale di un sintetizzatore solivagante sui medesimi tre tasti come da futura tradizione revivalistica Dungeon Synth (siamo pur sempre nel 2007, dopotutto). Si pensi piuttosto ai capitoli transitori, volendo così definirli, di “Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa” dei connazionali Moonsorrow e si avrà una buona benché non necessariamente prossima idea di quel che si nasconde, a livello atmosferico e parzialmente concettuale, sotto a questi strani passaggi cinematografici che poi mutano nuovamente in un Black Metal che sa effettivamente sia dell’ultraterrenità di Burzum che della sua concreta arroganza chitarristica “Det Som En Gang Var” (“Suo II”), specialmente quando totalmente privo di parti vocali di qualsivoglia tipo, ma uno che nondimeno ricorda proprio il succitato e monumentale disco del 2011 dei cugini Sorvali anche e proprio nelle scelte metriche e nello stile del cantato. Non è necessariamente un caso: il compositore principale della ben più nota band concittadina dei Raate tributerà oltre l’udibile composizione, a chiare lettere in un’intervista, la densità ipnotica che descrive un’altra era, un’altra età, quella medii aevi, in un modo estremamente originale come quello dei finnici in “Sielu, Linna”; ascolto irrinunciabile proprio del Trollhorn durante la stesura del sesto album in studio della sua prima band.
E la maniera di parlarci tramite immagini e suoni di questa remota età che hanno i Raate è effettivamente, decisamente diversa dalle sensazioni nella seconda metà del primo decennio del millennio corrente già messe in gioco in due full-length dai Peste Noire prossimi a fare scuola nell’ambito medievale in maniera diametralmente opposta, per dirne una, avvicinandosi piuttosto con fare tutto ed inconfondibilmente finlandese ai tempi oscuri dei primissimi Satyricon resi però più opprimenti e rarefatti allo stesso tempo nel tramite di armonie spesse, grasse, collose come quelle di un “Hels Vite” velocizzato e trasfigurato un po’ più meccanico, che ricordano tanto i Darkthrone quanto gli Armagedda e i The Eye abbracciandoli nelle loro diversità: tutti arricchiti di rimando di una fluidità di gusto che riporta alla composizione di musica classica come nel più o meno coevo caso Vemod, tributata anche nei giochi tastieristici dal sapore neoclassico à la Puissance benché privati di una certa marzialità (ancor più a fondo esercitato nella seconda parte dell’analogamente originale successore “Menetyksen Tie”). Ciò che stupisce di più, ciononostante, è proprio la delicatezza di queste melodie in assenza di melodia, delicate pure nel loro marasma di particolari toni bassi che dischiudono veri gioielli acustici inaspettati nel cuore della loro oscurità disperata ed opprimente.
“Sielu, Linna” è insomma una fortezza se vogliamo periferica, ma d’inespugnabile, di ottenebrante, di scarno Black Metal ruvido eppure ricchissimo in scelte armoniche e ribassamenti di timbro peculiari, non comuni, colorati da vivide esplorazioni Neo-Folk dall’inclinazione squisitamente medievale (“Raudan Takoja” se le si cerca più annerite, “Suo V” se totalmente acustiche; “Suo IV” se invece rimembranti, dal canto loro, un modo seriamente aristocratico di fare musica oscura). Esattamente come una piccola fortezza sulle sponde dell’oceano, non vuole e non ha necessità di suonare in alcun modo innovativa o scardinante (come potrebbe, qualcosa che è pensato nella sua robustezza per regge con stoica pazienza qualunque colpo e malefatta del tempo?) bensì unica e singolare nella sua giustapposizione di scelte stilistiche confluenti poi, con pazienza epicurea, come pietra posata su pietra, in un solo obiettivo: creazione di musica estremamente elegante nella sua perfettamente dissimulata complessità intellettiva, mai e poi mai retrograda anche se figlia diretta di un savoir faire distintamente norvegese e ancora novantiano, il quale, per assurdo che possa sembrare, non ne fornisce però il la, il punto di partenza, quanto piuttosto degli strumenti espressivi inevitabili e niente di più. “Viimeinen Linnoitus” con i suoi progenitori ha in fondo ben poco a che spartire, in conclusione e nella sua profonda bellezza che scava sotto le membra con costanza ad ogni ascolto; il quinto ed ultimo capitolo del tronco di disco intitolato “Suo”, con la sua completa libertà stilistica, è persino poi il moto di sberleffo e tenzone ad un certo modo d’intendere e propugnare la regressione.

I quindici anni trascorsi dall’uscita sempre ben poco reclamizzata di un disco quale “Sielu, Linna” sono dunque passati come se non fossero mai realmente sgusciati dalla triangolare e panciuta sezione superiore tramite il collo stretto ed asfissiante della loro clessidra. Come se il primo granello stesse in verità ancora scivolando, intrappolato giù, e fosse ora come ieri piantato in caduta a metà strada. Non tanto per una pura, banale novità stilistica che vorrebbe riconsegnarlo fuori categoria temporale, o avanti rispetto ai suoi anni, che non potrebbe mai e poi mai renderlo tale e non gli è pertanto fortunatamente propria – varrebbe a significare la perdita di tutto ciò che un simile disco vuole e riesce a trasmettere nella sua profonda ma sensatissima stranezza (una che li porterà persino a firmare per il colosso Spinefarm prima della misteriosa e silenziosa scomparsa dopo il secondo album targato 2011); bensì immobile e realmente longevo per la quasi introvabile bontà di un simile disco con simili fattezze formali. Uno di quei rari ma effettivi casi, dicevamo, in cui un piccolo gioiello misconosciuto è realmente tale e degno di riscoperta e approfondimento tanto quanto, se non più, dei maggiori capolavori di cui ogni tanto ci siamo quasi stufati di sentir parlare così indebitamente.

Matteo “Theo” Damiani

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